Cancello lungo la rete metallica al confine tra Svizzera e Italia, Val della Crotta
Foto: Paolo Crivelli
« La pelle racchiude il corpo, i limiti di sé, crea la frontiera tra dentro e fuori: una frontiera vivente, porosa, perché la pelle è al tempo stesso apertura al mondo, memoria vivente »
(David Le Breton, La pelle e la traccia. Le ferite del sé, Roma, Meltemi, 2005)
In questi mesi le persone sono state confinate nelle loro abitazioni, esortate a vivere il tempo tra le mura di casa. Questa condizione ha rivelato – semmai ce ne fosse bisogno – l’importanza della collaborazione e della solidarietà. La mancanza di contatti ci ha resi attenti alla necessità dei legami sociali, propri degli esseri umani.
Abbiamo anche sperimentato la condizione di rimanere più a lungo con noi stessi, e, nonostante la presenza delle persone che condividono lo stesso spazio, di organizzarci in un inaspettato silenzio.
E mentre all’interno delle nostre abitazioni i confini sono divenuti più stretti, quasi senza tempo, quelli all’esterno – più discreti e silenti senza la presenza delle auto e degli spostamenti delle persone – si sono come dilatati nel nostro immaginario, proiettati nei luoghi lontani in cui abbiamo viaggiato, contrapposti alle frontiere chiuse che per il momento ci impediscono di raggiungere mete al di fuori della nazione in cui viviamo.
Con maggior rilievo si è tracciata la differenza tra dentro e fuori, tra lo spazio privato che ogni persona si è fabbricato e gli spazi pubblici, poco frequentati fino a qualche settimana fa. Le terrazze, i giardini, gli orti e i boschi sono divenuti luoghi di interazione, per sporadici scambi con altre persone: socializzazione a distanza di sicurezza.
A volte ci siamo sentiti isolati ma non necessariamente soli, ricordando come ci si può sentire separati e soli anche tra la folla di una piazza o su di un treno nelle ore di punta.
Per accorgerci finalmente di essere parte di un tutto, abbiamo attivato, più di prima, mezzi e applicazioni digitali per vedere e sentire la presenza degli altri, protetti dentro i confini dei nostri appartamenti. Abbiamo condiviso lavoro, discussioni, brindisi e senso dell’ospitalità, senza spostarci fisicamente.
Evitiamo di esporre la nostra pelle e il nostro corpo al pericolo del contagio di questa pandemia.
Le mani, che permettono i saluti, una vicinanza e un’unione immediata con le persone, in certe occasioni devono essere protette da guanti, lavate e disinfettate sovente, come per togliere ogni traccia di contatto. La bocca, che consente la relazione con gli altri attraverso la parola, i baci, il sorriso o il gusto del cibo incorporato, ogni tanto deve essere coperta da una mascherina. Gli occhi, suscettibili di trasmettere i nostri sentimenti più intimi nella comunicazione, sono coperti da visiere di plexiglas o da appositi occhiali.
La pelle è l’involucro visibile che separa il nostro corpo da quello degli altri. Fin da epoche remote e in spazi culturali diversi è oggetto di pitture e marchi di distinzione, che segnalano posizioni sociali, lanciano messaggi, rispondono al desiderio di protezione. In alcune società nomadi del Maghreb o in India i sottili disegni tracciati sulla pelle con l’henna, servono per proteggere i punti del corpo maggiormente esposti ai pericoli dell’ambiente: mani e piedi.
L’Henna è una polvere ricavata dalle foglie essiccate di un arbusto diffuso in nord Africa e India,
impiegata dalle donne per tingere tessuti, capelli ed eseguire disegni sulla pelle.
L’uso di questa pianta sulla pelle e sulle stoffe ha valenze simboliche per le sue proprietà
purificatrici e propiziatrici.
I disegni all’henna sulle mani di questa donna indiana ricordano i motivi dei tessuti.
I gioielli d’argento sulla fronte, sul collo e sulle orecchie sono pensati per allontanare le forze malefiche.
Foto: Amish Thakkar, unsplash.com
Funzionano come una sorta di amuleto per preservare dalle forze negative e dalle malattie.
Nelle società globalizzate contemporanee tatuaggi e altri segni sulla pelle sono più che mai diffusi, esibiti dai campioni dello sport e da personalità dello spettacolo. L’epidermide, frontiera recuperata dalla moda e dal mercato, diviene sempre più il luogo dove distinguere la propria identità da quella degli altri, e il supporto dove iscrivere, al confine del sé, avvenimenti salienti della propria storia personale.
Il tatuaggio attorno alla bocca di questa donna Fulani del Mali è un segno protettivo e di appartenenza.
Viene realizzato con un uno speciale inchiostro naturale, a volte viene sostituito da una tintura all’henna.
Foto: Graziella Corti
Le barriere e le frontiere non durano in eterno, si modificano, ma anche dopo la loro sparizione continuano a suscitare emozioni e immagini, ormai inscritte e trasformate nella nostra memoria.
In queste settimane di riapertura delle scuole, delle attività economiche, dei trasporti, dei concerti e dei musei, dovremo ripensare le distanze tra chi si incontra, ridisegnare ambienti di lavoro e spazi pubblici, e sperimentare, più di quanto fatto finora, nuove gestualità del nostro corpo. Chissà se dopo questo periodo di paura, incertezza e isolamento i marchi sulla pelle diverranno un modo per registrare su di noi quanto vissuto, per comunicarlo, in questo maniera agli altri e per esorcizzare, forse, le minacce di un mondo sempre più complicato?
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